I ‘Trattati di Roma’ e le promesse dei leader per rifare l’Europa

Nei giorni in cui si celebra il 60° anniversario dei trattati che diedero il via al processo di unità europea, tutti ricordano il famoso ‘Manifesto di Ventotene’, che ne è stato la base ideologica. La prima edizione,  introvabile e preziosa,  è conservata alla Fondazione Nenni e ci ricorda molte cose: una straordinaria storia di lungimiranza e coraggio, la posta oggi in gioco, le scelte sul tavolo.

Nell’isola di Ventotene, i detenuti politici hanno sognato e discusso per mesi l’Europa unita. Altiero Spinelli e Ernesto Rossi del Partito d’Azione, con Eugenio Colorni del Partito Socialista, hanno infine sintetizzato e scritto il frutto di questo ‘lavoro collettivo’.  Colorni era stato incaricato di diffonderlo. E infatti il 22 gennaio 1944, nella Roma occupata dai nazisti (mentre contribuiva a organizzare la resistenza e confezionava, come capo redattore, l’Avanti! clandestino), in una tipografia nascosta di Monte Mario, ha fatto stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine intitolato ‘Problemi della federazione europea:  il ‘Manifesto di Ventotene’.

Quale sia stata,  dichiaratamente,  la spinta alla costruzione dell’Europa unita ci deve far riflettere ancora oggi. Colorni sostiene che le tragedie del continente sono nate tutte dai nazionalismi e dagli egoismi dei singoli Stati sovrani. L’unità europea significava  innanzitutto: mai più guerra. Oggi la fine dell’Unione porterebbe probabilmente soltanto guerre commerciali,  che già si temono con la Brexit,  ma il loro effetto ci renderebbe comunque tutti più poveri. Così come il ritorno alla lira taglierebbe del 30 per cento, dall’oggi al domani, i risparmi degli italiani.

La prefazione di Colorni elenca uno per uno gli obiettivi dell’Unione Europea derivanti dai principi generali del Manifesto. Tali principi, scrive, si possono riassumere nei seguenti punti: esercito unico federale, unità monetaria, abolizione delle barriere doganali e delle limitazioni all’emigrazione tra gli Stati appartenenti alla federazione, rappresentanza diretta dei cittadini ai consessi federali, politica estera unica. Molti di questi obbiettivi sono stati raggiunti. Mancano l’esercito e la politica estera unica. Il Parlamento europeo è sì un ‘consesso federale’ a elezione diretta, ma con scarsi poteri. Ciò che si è conseguito tuttavia non è poco. E proprio su difesa e politica estera il vertice di Roma avrà molto da dire.

Ma, soprattutto, l’ufficializzazione che per sopravvivere insieme bisogna camminare con andature diverse. Sarebbe pronto il documento che i leader europei firmeranno domani a Roma sessant’anni dopo quello che ha aperto la strada all’integrazione.

E, d’altro canto, sono troppe le ragioni che impediscono di pensare che domani a Roma non ci si limiterà a celebrare la storia ma si proverà anche a farla. Il fatto è che non conta tanto quello che verrà firmato, ma chi lo firmerà. A Roma si daranno appuntamento troppi leader a legittimità limitata o privi ormai di legittimità. La Francia ha archiviato Francois Hollande, la Germania deve ancora scegliere chi la guiderà nei prossimi quattro anni e, soprattutto, come, cioè con quale maggioranza, il nostro Gentiloni  appare come un premier  temporaneo,   lo spagnolo Mariano Rajoi non gode certo di robusta costituzione politica.

 L’obiettivo che i leader si pongono è impegnativo, forse troppo per tanta gente in scadenza: ‘Nei prossimi 10 anni vogliamo una Unione che sia sicura, prospera e sostenibile, con una aumentata dimensione sociale e con tutta la volontà e capacità di giocare un ruolo chiave nel mondo globale’.

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