Hillary Clinton, potenziale successore di Barack Obama

Le elezioni presidenziali negli Stati Uniti d’America del 2016 si terranno, come è noto, l’8 novembre prossimo per eleggere il 45º Presidente degli Stati Uniti d’America, successore del democratico Barack Obama, in carica negli otto anni precedenti, ineleggibile in quanto ha raggiunto il limite di due mandati previsto dal XXII emendamento della Costituzione statunitense. Il sistema elettorale prevede un’elezione semidiretta; il Presidente è infatti eletto a maggioranza assoluta, per un mandato di quattro anni, dal Collegio elettorale, composto da 538 grandi elettori, eletti tramite elezione diretta il martedì successivo al primo lunedì del novembre dell’ultimo anno del mandato del Presidente in carica. Ogni Stato federato elegge un numero di delegati pari ai rappresentanti dello stesso Stato al Congresso, ripartizione che tiene conto anche della consistenza della popolazione e quindi soggetta a revisione periodica. Eccetto il Maine e il Nebraska, ogni Stato ha adottato un sistema elettorale per il quale vengono eletti solo i delegati sostenitori di uno stesso candidato che insieme hanno ottenuto più voti; il candidato indirettamente vincitore nel singolo Stato si aggiudica quindi tutti i delegati assegnati allo stesso. I partiti politici maggiori nominano i propri candidati avvalendosi di elezioni primarie, tenute in tutti gli Stati con modalità diverse. Nelle precedenti elezioni del 2012, Obama aveva vinto sul candidato repubblicano Mitt Romney conquistando il 51,1% del voto popolare e 332 grandi elettori su 538. Per quanto riguarda il rinnovo del Congresso, nel 2012 il Partito Democratico aveva ottenuto la maggioranza al Senato e il Partito Repubblicano la maggioranza alla Camera dei rappresentanti; nel 2014 invece il Partito Repubblicano con le elezioni di ‘mid term’ aveva incrementato la maggioranza alla Camera e conquistato anche quella al Senato. Il Partito Democratico sceglierà il candidato alla Presidenza alla convention nazionale organizzata a Filadelfia dal 25 al 28 luglio 2016. Il Partito Repubblicano sceglierà il candidato alla Presidenza alla convention nazionale organizzata a Cleveland dal 18 al 21 luglio 2016. Tralasciando gli altri partiti, e gli indipendenti, è prevedibile che la corsa per la presidenza si restringerà a due candidati possibili: ‘Hillary Clinton per il Partito Democratico e Donald Trump per il Partito Repubblicano’. Hillary Clinton, è una politica statunitense del Partito Democratico, già senatrice e Segretario di Stato. Prima di intraprendere l’attività politica, ha esercitato la professione di avvocato e docente di diritto penale, diventando la prima donna a essere ammessa come socio nel ‘Rose Law Firm’, uno degli studi legali più antichi degli Stati Uniti. È sposata con Bill Clinton dal 1975. A seguito dell’elezione del marito alla carica di presidente degli Stati Uniti d’America, è stata ‘first lady’ dal 1993 al 2001. Successivamente prestò servizio per otto anni come senatrice in rappresentanza dello Stato di New York (2001-2009), venendo eletta per il suo primo mandato mentre era ancora first lady e diventando quindi la prima moglie di un presidente a ricoprire una carica elettiva. Donald Trump è un imprenditore, politico e personaggio televisivo statunitense. È figlio di Fred Trump, un facoltoso investitore immobiliare di New York, da cui è stato fortemente influenzato nel proposito di intraprendere una carriera nel medesimo settore. Le sue strategie aggressive di ‘brand management’, il suo stile di vita e i suoi modi diretti hanno contribuito a renderlo un personaggio celebre, status accresciuto dalla popolarità del programma televisivo ‘The Apprentice’, da lui stesso prodotto e condotto fra il 2004 e il 2015. Dopo aver concorso senza successo alle primarie del ‘Partito della Riforma’ per le elezioni presidenziali del 2000 , aderì dapprima al Partito Democratico e poi al Partito Repubblicano. Nel 2015 ha annunciato la sua candidatura alle primarie repubblicane in previsione delle elezioni presidenziali del 2016, impostando la sua campagna elettorale su posizioni populiste e conservatrici. In particolare, le sue dichiarazioni in favore del libero utilizzo delle armi da fuoco hanno suscitato aspre polemiche, così come la sua proposta di istituire una moratoria sull’immigrazione delle persone di religione islamica. Il presidente americano Obama, nel corso di un’intervista tenutasi in California, ha spiegato i motivi per cui il candidato repubblicano Donald Trump non sarà il futuro presidente degli Stati Uniti, esprimendo la sua fiducia nei confronti dei cittadini americani che sanno che ‘Fare il presidente è un lavoro serio e non è come condurre un talkshow o un reality show’. Trump nel corso delle elezioni ha avuto, e continuerà a mantenerlo, il primato di aver conseguito il primato del ‘demerito’ del bullismo inserito in campagna elettorale. Venerdì sera, 11 marzo, il tycoon ha dovuto sospendere il comizio perché il Chicago Pavillon, dell’Università dell’Illinois, era stata invaso da un centinaio di contestatori. E altri migliaia si erano assiepati fuori, con i cartelli e gridando slogan. Una parte dei fan di Trump ha reagito con gli insulti. Ci sono stati spintoni, qualche scazzottata e la polizia ha faticato parecchio per sedare le risse all’interno del palazzetto. È come se il veleno distillato in sei-sette mesi di campagna elettorale fosse entrato in circolazione nel corpo dell’opinione pubblica americana. Tutti hanno preso le distanze dai contestatori, per lo più giovani e giovanissimi. E nello stesso tempo, tutti hanno accusato Trump, più o meno esplicitamente, di aver alimentato un clima di intolleranza che, spesso, è l’anticamera della violenza. Anche a Chicago erano tanti, almeno 10 mila. Il problema vero è Trump e non i suoi fan. Il suo linguaggio ha funzionato all’inizio, ed era parte integrante del suo profilo da outsider anti conformista. Il costruttore newyorkese in diretta televisiva disse, pensando di parlare in un pub,   diretto ad un contestatore: ‘Sì portatelo fuori quello lì. Io gli darei anche un pugno in faccia’. Un suo sostenitore con il cappellone da cow boy raccolse l’invito,   mollando una sventola a un ragazzo afroamericano che gridava contro il leader. Negli ultimi giorni Trump, accerchiato dall’establishment repubblicano, ha esasperato toni e contenuti: ‘L’Islam che ci odia, gli americani deboli che vogliono fermare il suo progetto, i giornalisti che sono gli esseri più disgustosi sulla terra’, e così via. Le proteste sono maturate sui social network con diecimila firme raccolte in poco tempo su Facebook per mettere in piedi la protesta di Chicago. Le reti giovanili, le organizzazioni degli afro americani sono vitali e pronti a reagire.  Hillary Clinton, da parte sua,  fa il pieno di voti nel profondo sud, aggiudicandosi con vantaggi enormi Virginia, Tennesse,  Alabama, Arkansas e Texas. La Clinton doveva confermare un vantaggio consistente sul suo avversario nella battaglia interna al Partito Democratico, e ci è riuscita. Doveva dimostrare di essere il candidato degli afro-americani, numerosissimi in tutti gli stati del profondo sud dove furono schiavi, e lo ha fatto. Doveva fare quel salto in avanti che le consentisse di cominciare a presentarsi alla nazione come l’argine alla ribellione della destra estrema incarnata da Donald Trump.  I numeri parlano chiaro, con percentuali che oscillano tra il 60 e l’80% in tutta la ‘Bible Belt’, la ‘cintura della Bibbia’ dove si concentra buona parte dell’elettorato cristiano, ovvero Tennessee, Virginia, Georgia, Texas, Arkansas, Alabama. Percentuali che non solo rappresentano una straordinaria dimostrazione di forza, per quanto in Stati dove solitamente nelle elezioni generali i Democratici hanno pochissime chance di vittoria, ma che le consentono di accumulare un discreto vantaggio nella conta dei delegati, che nelle primarie democratiche vengono assegnati col sistema proporzionale. Non a caso, una Clinton raggiante ha potuto concentrarsi su quello che da mesi ritiene essere il compito a cui è predestinata: ‘Attaccare i repubblicani e Donald Trump in particolare’. Al magnate che promette di rifare grande l’America spargendo odio a destra e a manca, ha risposto che l’America è già grande e continuerà ad esserlo ed il nostro compito è di completarla. Poi, come tante volte in passato, ha preso i temi più sociali, come sanità, scuola, redditi e li ha rimaneggiati, assumendoli come propri e declinandoli in chiave di completamento del lavoro cominciato da Obama: ‘Il presidente ha portato il 90% degli americani ad avere un’assicurazione sanitaria, dobbiamo arrivare al 100%, il presidente ha salvato l’industria automobilistica, adesso dobbiamo costruire l’industria del futuro’. Ritornando a Trump il partito repubblicano ha intenzione di far naufragare la sua candidatura.   Martedì prossimo si voterà in alcuni Stati importanti,   anzitutto Florida e Ohio,   e i repubblicani devono entro quella data trovare un modo per bloccarlo. Dopo il voto di martedì, Trump ha detto: ‘Io sono l’unificatore!’. In realtà il partito non è mai apparso così diviso, allo sbando, spaccato tra interessi e strategie diverse, preso in un gorgo di nichilismo che fa dubitare del suo stesso futuro politico. Trump ha tranquillamente insultato la famiglia Bush, si è scontrato col Papa ed è arrivato a dire che ‘Planned Parenthood’, l’organizzazione che offre servizi abortivi, fa comunque ‘un buon lavoro’. Nonostante questo, ha vinto. Prima del Super Tuesday, ha rifiutato di prendere le distanze dal leader razzista e antisemita David Duke e dal Ku Klux Klan. Ancora una volta, nonostante tutto, ha vinto in Stati moderati come Massachusetts e Vermont. Ecco dunque che alla domanda: ‘Che fare?’, che circola praticamente in ogni stanza, talk-show, riunione dove ci sia un repubblicano, è difficile dare risposta. I sostenitori di Trump e del suo messaggio anti-establishment, farebbero apparire i democratici riuniti sotto Hillary Clinton un partito affidabile, stabile, capace di guardare al bene dell’America più che a interessi particolari e divisioni intestine. Quale che sia la strategia da seguire ora, il vero fantasma che percorre il mondo repubblicano è comunque quello della spaccatura. C’è chi dice ormai apertamente, tra i repubblicani, che non intende votare Trump, nel caso fosse il nominato. ‘L’amore per il mio Paese è più forte della lealtà a mio partito. Non posso sostenere un candidato così privo di carattere e discernimento”, ha spiegato Scott Rigell, repubblicano del Vermont. Sulla stessa linea un deputato, Mark Sanford, e il senatore del Nebraska Ben Sasse. E Paul Ryan, lo speaker della Camera, di fronte al rifiuto di Trump di dissociarsi dal Klu Klux Klan, ha lanciato l’avvertimento: ‘Non c’è posto nel nostro partito per chi difende i bigotti’. Le parole più forti sono state però pronunciate proprio dal senatore Sasse, che ha prospettato la possibilità di un ‘terzo partito’, nel caso Trump occupasse il campo repubblicano. A quel punto, attorno al miliardario newyorkese, si coalizzerebbero i gruppi più conservatori, quelli della destra del Tea Party, probabilmente settori dell’elettorato religioso. Dall’altra parte, l’establishment di Washington, i moderati, gli eredi del partito di Lincoln e Reagan. Questo ci fa ritenere, sulla base di spiccate probabilità, che il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’Amarica sarà Hillary Clinton.

 

Circa Andrea Viscardi

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