Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, l’articolo ricevuto da James Hansen:
Ad ottobre, il capo della Nasa, testimoniando davanti al Congresso USA, ha annunciato l’intenzione di mandare astronauti su Marte entro il 2035. L’imprenditore automobilistico Elon Musk aveva già detto che il suo gruppo compierà la missione con una decina d’anni d’anticipo, all’incirca nel 2025—ma Musk regolarmente “buca” le sue scadenze ottimistiche.
Comunque sia, gli americani intendono raggiungere prossimamente il pianeta rosso per—pare—restarci, impiantando poi
una colonia permanente. Forse inevitabilmente, prima ancora che si sia in grado di arrivare lassù, ne è nata una controversia su come la futura colonia dovrebbe essere governata.
Il discorso, ad ora del tutto ipotetico, offre il vantaggio di permettere di parlare di politica senza impegno e senza tirare in ballo Donald Trump. Dati gli altissimi costi logistici e temporali del viaggio marziano, si suppone che l’insediamento umano sul pianeta debba essere sostanzialmente autonomo e non, dunque, una mera estensione di un sistema politico terrestre. Offrirebbe la possibilità di ripartire da zero, inventando una società completamente nuova. Fioccano idee e ideali. Ci sono femministe che propongono che sia vietato ai maschi mettere piede sul pianeta “vergine”, riformatori sociali che, immaginando un perfetto equilibrio razziale dei successivi equipaggi che raggiungeranno Marte—restando per riprodursi—vorrebbero generare una nuova razza umana unica, senza le divisioni che separano i popoli oggi sulla Terra.
Per quanto riguarda la forma politica, anche qui ci ha messo bocca Elon Musk, con un tweet: “Democrazia diretta di tutta la popolazione. Leggi molto succinte, la lunghezza maschera le gabole. Scadenza automatica delle regole per prevenire l’asfissia burocratica. Ogni regola rimovibile dal 40% degli abitanti. Libertà.” Mr. Musk è un “libertario”. I politically correct invece immaginano una sorta di paradiso tecnologico (organico però…) attentamente regolato di modo che tutti i mali sociali possano essere raddrizzati.
C’è un problema. Ciò che sappiamo della gestione di nuove comunità umane ristrette e molto isolate suggerisce che o zoppichino malamente al livello della minima sussistenza oppure—al peggio, ma non di rado—che si ammazzino tutti. Un modello calzante potrebbe essere quello dei naufraghi, i gruppi di sopravvissuti ai disastri marittimi del passato. Il sociologo Nicholas Christakis ha analizzato i dati relativi alla sopravvivenza dei naufragati tra il 1500 e il 1900, trovando esiti altamente variabili. A volte hanno ucciso e mangiato i compari, in altri casi hanno resistito agevolmente anche senza ricorso al cannibalismo. Nel suo libro “Blueprint: The Evolutionary Origins of a Good Society”, Christakis spiega: “I
gruppi che hanno resistito meglio erano quelli caratterizzati da una gerarchia blanda, senza brutalità, un rapporto amichevole tra i sopravvissuti e un orientamento alla cooperazione e l’altruismo”.
La sua non è però una ricetta. Il suggerimento che ne esce è che, dovendo naufragare su un’isola deserta, è meglio farlo in compagnia di persone perbene. Poi, come ricorda indirettamente l’astrofisico Charles Cockell, Marte non è un’isola: “La tirannia è inerente alla natura dello spazio. È un ambiente dove l’ossigeno è prodotto da una macchina”. Mentre sulla Terra un governo può sequestrare acqua e cibo: “…non può confiscare l’aria. Quaggiù è possibile scappare nei boschi e magari lanciare una rivoluzione”.