Geppetto & Geppetto di Tindaro Granata / Proxima Res regia Tindaro Granata con Alessia Bellotto, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Carlo Guasconi, Paolo Li Volsi, Lucia Rea, Roberta Rosignoli Festival delle Colline Torinesi XXI edizione / 2016 c/o Teatro Astra, Torino foto Andrea Macchia

Fino al 28 gennaio al Teatro India di Roma, Tindaro Granata è autore, interprete e re­gista di ‘Geppetto e Geppetto’

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, le considerazioni di Roberto Staglianò su ‘Geppetto e Geppetto’, in scena al Teatro India di Roma fino al 28 gennaio.

                                                                    Geppetto e Geppetto

Luca non sa pronunciare bene l’espressione stepchild adoption, è più facile per lui dire Open Space, parlando della loro casa di cento metri quadri, dove ci sono più camere che persone e i doppi servizi con finestra. Luca ama Toni al punto da realizzare con lui il sogno e quel suo bisogno di paternità, seguendolo fino in Canada dove un’agenzia si occuperà di eseguire la loro pratica. In fondo i figli sono tutti uguali anche se vengono al mondo da un utero in affitto. È l’amore ‘che muove il sole e le altre stelle’. Luca lo dice anche nella sua dirompente semplicità: ‘Se ci sarebbe più amore…’ perché lui ama Toni e ama anche Mattia di cui non è il padre biologico, ma è pur sempre il figlio di loro due, Papi e Papo, due Geppetto, appunto, e, come nel Pinocchio di Collodi, succede qualcosa di magico. Il labbro di Mattia inizia a tremare ogni volta che il piccolo racconta una delle sue o quando è felice, perché per lui la felicità e la bugia sono un po’ la stessa cosa. Mattia cresce felice nonostante a scuola qualcuno lo apostrofa con la crudeltà inconsapevole di cui sono capaci i bambini. Cresce amato, fino al punto di rottura della storia.

‘Geppetto e Geppetto’ è la ‘creatura’ di Tindaro Granata che nello spettacolo interpreta Luca, il terzo lavoro che ha scritto e diretto dopo ‘Antropolaroid’  e ‘Invidiatemi come io ho invidiato voi’. Ho avuto il piacere di parlare con lui in una tranquilla mattinata, nel suo giorno off di riposo. Al suo arrivo a Roma direttamente da Prato, in quella che è una tournée che dura da due anni.

Lo spettacolo nato come una coproduzione del Teatro Stabile di Genova, il Festival delle Colline Torinesi e Proxima Res, ha ricevuto il Premio Nazionale Franco Enriquez 2017-Città di Sirolo ‘Teatro Contemporaneo, sezione Autori, Registi, Attori’ e il premio Hystrio Twister 2017. Tindaro Granata ha vinto il Premio UBU 2016  ‘Miglior progetto o novità drammaturgica’.  Angelo Di Genio ha vinto il Premio ANCT 2016 per l’interpretazione del figlio Matteo. Nel cast recitano Alessia Bellotto, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Carlo Guasconi, Paolo Li Volsi, Lucia Rea e Roberta Rosignoli Ci sono almeno due elementi distintivi in questo spettacolo. Anzitutto il ritmo nella narrazione e la trasparenza. Come dal vetro di una finestra si vede un grande tavolo che è agenzia, cucina o scuola a seconda dei momenti. Un water su cui sedersi nei momenti più difficili o per riflettere e, infine, delle sedie È un racconto trasparente anche nel senso che sembra documentary, con una squisita regia, una devozione interpretativa e un’ammirevole cura nelle parole, nei tic, nella caratterizzazione dei personaggi. Sembra di assistere alle scene di vita quotidiana dei vicini di casa, dalla finestra che affaccia sul palazzo di fronte, divisa dal cortile in comune. E c’è una straordinaria capacità di immedesimazione al punto che dopo aver riso tanto all’inizio, complice un umorismo intelligente, arriva il pugno quando meno te lo aspetti e capita pure di piangere, alla fine, perché ritrovi qualcosa che appartiene a tutti noi. La capacità di amare, di donare tutto incondizionatamente e l’inconsapevole predisposizione che abbiamo nel far soffrire chi più ci ama  Come la madre di Toni che nutre il proprio figlio adulto con quelle tipiche attenzioni di una donna siciliana ed è sempre pronta a preparare gli spaghetti con il nero di seppia o a scongelare le fave, perché lui è diventato vegano. Lei negherà a lungo la sua presenza come nonna e le sue coccole a suo nipote Matteo il quale ogni Natale soffrirà maledettamente per quella assenza e ripeterà come in un imprinting, la stessa inevitabile incapacità di lasciarsi alle spalle l’orgoglio di quelle personali convinzioni arroccate, che schiacciano sempre verso il basso quella voglia di abbracciare e di essere abbracciati  E così Matteo con un impeto di livida rabbia e conati di parole feroci, sputa fuori tanta sofferenza repressa verso Luca, suo padre adottivo. Sono due scene che rivelano una caratteristica che accomuna la nonna e il nipote. Entrambi vanno incontro al destino di perdere l’affetto di un figlio in un caso e di un padre nell’altro, pur di non retrocedere di un passo nei confronti di un pregiudizio. Del perdono in quanto esseri umani che sbagliano ma che amano e meritano di essere amati, anziché giudicati. Forse nessuno di loro è crudele fino in fondo, ma ognuno ripete un meccanismo a catena, quel limite che non si riesce a superare nei confronti di se stessi e degli altri. Alla fine resterà soltanto il punto di luce di un riflettore che avvolge Matteo in un abbraccio simbolico e solitario, prima del buio finale e tragico. E le lacrime cominciano a traboccare dalle palpebre perché in quel ‘se ci sarebbe amore’, come diceva Luca all’inizio, non ci sono solo i due Geppetto, ma un po’ tutti noi.

Roberto Staglianò

Intervista a Tindaro Granata    

 

Qual’è è il tuo percorso artistico/professionale e anche personale?

La cosa che mi caratterizza molto è che non ho fatto nessuna scuola, sono un autodidatta. Sono andato via dalla Sicilia che avevo 18 anni  ho fatto per due anni il marinaio, imbarcato su una nave, sparavo con un moschetto automatico, una sorta di mitragliatrice, avevo il brevetto, ero un meccanico artigliere, mi occupavo del cannone, della parte più meccanica delle armi. Appena mi sono congedato mi sono trasferito a Roma e lì ho vissuto dai 18 ai 28 anni. È stata una parentesi molto importante, un terzo della mia vita l’ho passata a Roma. A Roma io facevo mille lavori: la mattina lavoravo in un negozio di scarpe a Fontana di Trevi, la sera facevo il cameriere In una trattoria dietro il Teatro Argentina, in via dei Chiodaroli.

Grazie all’incontro con Massimo Ranieri  ho iniziato a fare l’attore e, a mano a mano, mi sono formato grazie a tutte quelle persone che volevo incontrare. Avevo conosciuto Carmelo Rifici che attualmente è il direttore della Scuola del Piccolo di Milano e mi piaceva il suo modo di fare teatro. L’ho seguito trasferendomi a Milano, abbiamo fondato una compagnia insieme che si chiama Proxima Res e da lì poi ho cominciato a scrivere e diventare autonomo e a fare la mia strada. Sono andato via dalla Sicilia con l’idea di voler fare l’attore. Diciamo che nella vita ho cercato di costruirmi quella che poi è stata la mia strada, anche se devo dire che alla fine la fortuna è stata determinante, perché non tutti ci riescono. Io ce l’ho fatta, almeno fino adesso perché mi sono successe delle cose belle.

Ti è mancato non aver potuto frequentare un’Accademia?

All’inizio ho sentito tanto la mancanza di un percorso formativo teatrale e quindi di una scuola. Quando si entra nel mondo dello spettacolo si comincia a poco a poco a capire come funziona e all’epoca c’erano tanti provini che si potevano fare. In tanti mi dicevano: se non hai fatto nessuna scuola non ti chiamerà mai nessuno e così era. Quella sensazione l’ho patita e l’ho sofferta. Poi col tempo mi sono costruito un percorso scegliendo tutte le persone con le quali volevo andare a lavorare e questa è stata la mia fortuna. Tra queste persone ci sono Carmelo Rifici, Serena Sinigaglia, Andrea Chiodi, Valerio Binasco. Sono stato molto determinato ma anche molto fortunato. Ci deve essere la possibilità per tutti di potersi preparare. La vita ti dirà se ce la potrei fare oppure no.  Non tutti faranno gli attori o i registi. Io sono arrivato al Teatro in modo del tutto casuale. All’inizio quando sono arrivato a Roma volevo fare l’attore di cinema e il teatro nemmeno mi interessava. Poi un giorno è successo qualcosa, ho incontrato Massimo Ranieri mi sono appassionato e mi sono assunto la responsabilità del fatto che era una cosa che mi era successa fortunatamente. Ho trovato un’altra cosa che mi ha fatto sentire felice e soddisfatto e ho scoperto il mondo del teatro così. Da quando ho iniziato a lavorare non mi sono più fermato. Quando all’epoca volevo fare il cinema facevo mille lavori, ero frustrato, odiavo il mondo intero, non ero una bella persona. Con il mio lavoro cerco di essere una persona migliore di quello che sono. Se il mio lavoro tende a farmi diventare una persona migliore vuol dire che è la cosa giusta.

Hai dato un tagli e un’impronta ben definita nella narrazione o la tua scelta è stata quella di descrivere una storia con distacco lasciando una totale libertà di espressione e di interpretazione agli attori e al pubblico?.

Distaccarmi da tutto, dalla storia e dall’argomento. E’ stato necessario distaccarmi da tutto, dalla storia e dall’argomento, è stato importante esserlo e farlo per sentirmi libero durante la scrittura. Non ho preso delle posizioni. Ci sono delle posizioni rispetto all’utero in affitto ad esempio dove tutto è molto confuso, complesso, difficile da gestire tutto. Ci sono alcune questioni e scelte che appartengono alla coscienza individuale piuttosto che alla coscienza della collettività. Nessuna persona si deve permettere di giudicare e proprio per evitare di dare  un giudizio ho cercato di essere il più libero e il più lontano da tutta la storia.

Roberto Staglianò

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