Epilessia, vita sociale a rischio per 9 bambini su 10

L’epilessia è una condizione neurologica,  in alcuni casi definita cronica, transitoria in altri, caratterizzata da ricorrenti e improvvise manifestazioni con improvvisa perdita della coscienza e violenti movimenti convulsivi dei muscoli, dette crisi epilettiche. Nella maggior parte dei casi, l’eziologia non è nota, anche se alcuni individui possono sviluppare l’epilessia come risultato di alcune lesioni cerebrali, a seguito di un ictus, per un tumore al cervello o per l’uso di droghe e alcol. Anche alcune rare mutazioni genetiche possono essere correlate all’instaurarsi della condizione. L’epilessia spesso può essere confermata mediante l’elettroencefalogramma, tuttavia un risultato normale in questo test non può escludere la condizione. Circa l’1% della popolazione mondiale ha l’epilessia e quasi l’80% dei casi si riscontrano nei paesi in via di sviluppo.  La stigmatizzazione sociale è perdurata fino all’epoca moderna, sia per quanto riguarda la sfera pubblica che quella privata, ma i sondaggi suggeriscono che questo atteggiamento si sta affievolendo nel tempo, soprattutto nel mondo sviluppato. L’epilessia  può portare ad avere uno scarso rendimento scolastico con difficoltà di apprendimento  comuni in coloro che presentano la condizione ed in particolare nei bambini epilettici. Sul versante del comportamento l’epilessia può associarsi a disturbi dell’attenzione, e problemi di socializzazione. I genitori di persone con epilessia, come anche di persone autistiche, possono vivere con preoccupazione lo stato di salute dei figli ed esperire un elevato livello di stress in relazione alla loro sicurezza e rispetto al loro futuro ed autonomia. La sindrome da deficit di attenzione e iperattività  colpisce da tre a cinque volte di più i bambini con epilessia rispetto a quelli della popolazione in generale. L’epilessia causata da fattori genetici, congenita o dovuta dalle condizioni dello sviluppo, sono i casi più comuni nella fascia più giovane della popolazione.  Alcuni rari casi (tra l’1% e il 2%) di epilessia sono dovuti ad un singolo difetto genetico; la maggior parte sono da imputarsi all’interazione di più geni e fattori ambientali.  L’epilessia rende difficile l’integrazione per i bambini e gli adolescenti: uno su tre non ha amici, qualcuno (53%) riesce a inserirsi in una cerchia molto ristretta e si accontenta di poche relazioni. Per il 57 per cento dei genitori i pregiudizi nei confronti della malattia sono ancora molto pesanti tanto che il 53 per cento delle mamme e dei papà teme teme un futuro di solitudine per i propri figli. È quanto emerge da  un’indagine dell’Osservatorio Nazionale sulla salute dell’infanzia e dell’adolescenza presentata in occasione del 3° Forum Internazionale della Società Italiana Medici Pediatri.   L’inchiesta di Datanalysis ha coinvolto 400 genitori di bambini e adolescenti malati di epilessia per capire l’atteggiamento di mamme e papà nei confronti della malattia ma soprattutto per fare luce sulla vita di questi giovanissimi: in Italia ci sono circa 500 mila pazienti epilettici che crescono al ritmo di 32 mila nuove diagnosi l’anno, ma nel 60 per cento dei casi la patologia si manifesta nell’infanzia. Otre che contro i pregiudizi i bambini devono combattere una terapia che non sempre funziona.  La cura fila liscia solo per un piccolo paziente su tre: il 35 per cento manifesta effetti collaterali e il 25 per cento deve cambiare regime di cura per gestire al meglio i sintomi. I trattamenti funzionano,  spiega Giuseppe Mele, pediatra e presidente di Paidòss, ma i genitori percepiscono la ‘pesantezza’ di terapie lunghe e complesse e soprattutto sono molto sensibili di fronte ai possibili effetti collaterali, che non sono frequentissimi ma certo possono avere un impatto sulla qualità di vita dei bambini. I genitori mettono tutto il loro impegno alla ricerca di una normalità che la malattia e la sua terapia possono rendere un obiettivo difficile, e in questa sfida ritengono il pediatra di famiglia il più vicino e presente alleato. Nel 56 per cento dei casi infatti il pediatra è stato il primo a fare la diagnosi e ad attivarsi per le successive terapie, soltanto il 27 per cento ha demandato tutta la gestione allo specialista. Il pediatra è anche la fonte principale per informarsi sulla malattia secondo il 45 per cento dei genitori.

Naomi Sally Santangelo

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