Elezioni 2020 e referendum

Un election day particolarmente denso, quello che aspetta gli italiani il 20 e 21 settembre. Un giorno e mezzo di fuoco – domenica si vota dalle 7 alle 23, mentre lunedì solo dalle 7 alle 15 – in cui si terranno elezioni 2020  importanti a livello locale in 7 Regioni e in ben 1.178 Comuni, oltre al referendum costituzionale, che riguarda tutti i cittadini, e a due suppletive, in due seggi uninominali vacanti del Senato. Novità dell’ultima ora: una circolare ai prefetti è allo studio per evitare che si formino assembramenti ai seggi e facilitare le categorie più deboli. Gli elettori non potranno accedere negli edifici con la conseguente formazione di file nei corridoi, ma si dovrà attendere fuori, dove volontari della protezione ci e forze dell’ordine daranno la precedenza ad anziani, donne incinte e soggetti deboli per l’accesso ai seggi.

Sono sette le Regioni che sono chiamate a rinnovare il proprio governo e i vari ‘parlamentini’ territoriali: le elezioni, inizialmente previste tra marzo e giugno scorsi, sono state accorpate e rinviate per l’emergenza Coronavirus. Andranno alle urne gli elettori di Campania, Toscana, Marche, Puglia, Veneto, Liguria e Valle d’Aosta. Di queste, nelle prime quattro la giunta uscente è di centrosinistra; in Veneto e Liguria governa il centrodestra, mentre la Valle D’Aosta è stata costretta alle urne anticipate, dopo che la maggioranza formata da Alpe, Union Valdôtaine Progressiste e Stella Alpina, a sua volta salita in sella dopo un ribaltone, si è sgretolata.

La storia della riforma costituzionale su cui saremo chiamati a pronunciarci il 20 settembre con referendum confermativo è quanto di più incredibile la politica italiana abbia prodotto negli ultimi anni. Un taglio a casaccio del numero dei parlamentari portato avanti dal Movimento 5 stelle per ragioni di propaganda, votato inizialmente anche dalla Lega per accontentare l’allora alleato di governo, poi pure dal Pd per la stessa ragione, e da tutti gli altri per non farsi scavalcare sul terreno dell’antiparlamentarismo.

Le concrete conseguenze della riforma non hanno niente a che vedere con il motivo per cui è stata promossa da chi l’ha promossa né con le ragioni per cui è apprezzata dai molti che la apprezzano.

Il punto è che dopo una vittoria del Sì l’intero equilibrio di pesi e contrappesi garantito dalla Costituzione, secondo cui sono necessarie maggioranze qualificate per eleggere il Presidente della Repubblica, i membri della Consulta, del Csm e delle Authority, nonché per modificare la stessa Costituzione, sarebbe a rischio.

Di fatto, dipenderebbe dalla legge elettorale. E basterebbe davvero poco perché la disproporzionalità prodotta dal sistema di voto, da un eventuale premio di maggioranza, dalla torsione maggioritaria implicita nella riduzione dei seggi – da una qualunque combinazione di questi fattori, appositamente ricercata dalla maggioranza di turno o anche frutto del caso – consegnasse al vincitore delle elezioni quei famosi «pieni poteri» da cui l’attuale governo avrebbe dovuto metterci al riparo.

Il referendum di oggi è il punto di arrivo di una lunghissima campagna  divenuta presto martellante. Sui giornali, in tv, in libreria, non si è più scritto e parlato d’altro. Ne sono nati veri e propri generi e sottogeneri letterari, format televisivi, un partito politico tutto intero. E adesso persino una riforma della Costituzione.

È grazie a loro che l’espressione «costi della politica», fino a quel momento raramente utilizzata, è diventata il tema dominante del dibattito pubblico. Un’affermazione che è già una vittoria, evidentemente. Una volta stabilito che la politica, il Parlamento, la democrazia sono un «costo», per non dire uno spreco, è chiaro quale sia il passo successivo.

Restiamo sul terreno su cui ci hanno voluto portare i sostenitori della riforma: i costi della politica. Mettiamoli pure tutti in fila, questi fondamentali risparmi. Facciamo anche finta di non vedere il trucco, quando mettono nel conto dei risparmi il totale degli stipendi dei parlamentari, dimenticando di sottrarre la non piccola quota che ritorna allo Stato in tasse.

Ma mettiamo anche, nell’altra colonna, i costi dell’antipolitica. Al punto che lo stesso presidente del Consiglio, con tutto il suo partito, può allearsi con il principale partito dell’opposizione e formare con esso un nuovo governo, in nome della necessità di impedire l’ascesa al potere di quelli con cui governava fino a un minuto prima.

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