Demanio: Agostini deve lasciare la presidenza per la cognata di Gentiloni

Alla fine Paolo Gentiloni ha vinto. E con lui tutto quel sistema di potere e di lobbismo che riesce ad imporre le nomine ai vertici di importanti strutture dello Stato che dovranno disegnare il futuro prossimo dell’Italia. Il commissario all’Economia dell’Ue è riuscito ad avere l’ok per far nominare la cognata, Alessandra Dal Verme, alla guida dell’Agenzia del Demanio al posto di Antonio Agostini. L’ufficializzazione arriverà nel consiglio dei ministri, in programma per oggi, per dare il via libera al Dl Covid. Nessun cambio per le altre due direzioni delle Agenzie Fiscali ‘gestite’ dal neo ministro dell’Economia Daniele Franco. Scontante la riconferma al vertice della macchina fiscale italiana di Ernesto Maria Ruffini, in quota Renzi. E all’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli quella dell’economista Marcello Minenna, vicino ai 5Stelle. Si cambia solo la direzione del Demanio. Un cambio che ha avuto un parto molto travagliato: l’ex presidente del consiglio per ‘imporre’ la cognata sulla sedia più importante dell’Agenzia di via Barberini ha lottato come un ‘gladiatore’ utilizzando tutte le armi in suo possesso. Avrebbe fatto pesare il suo ruolo da commissario europeo che da Bruxelles gestisce i fondi del Recovery Found destinati all’Italia. Chiesto l’aiuto di Giuseppe Chinè, neo Capo di Gabinetto del ministro Franco, affinché intercedesse con il suo nuovo datore di lavoro. E l’intercessione dell’ormai sempre presente Roberto Garofali, neo sottosegretario alla presidenza del consiglio perché tutte le nomine passano sulla sua scrivania e senza il suo assenso non ci può essere nessun cambiamento. Un attivismo, questo, ma soprattutto un autoreferenzialismo che sta irritando, e non poco, il presidente del consiglio Mario Draghi. La sostituzione di Agostini con la Dal Verme, insomma, non rientra nel classico e normale avvicendamento legato allo spoil system ma ad una forzatura voluta ed imposta da un determinato ‘potere’ che regola e determina le nomine. Non solo Paolo Gentiloni ma soprattutto Chinè e Garofali che diventeranno, o meglio, aspirano a diventare, ancora più ‘forti’ nel valzer delle nomine pubbliche per riempiere le 518 caselle vuote delle società gestite dal ministero guidato da Franco. Il cambio al vertice dell’Agenzia del Demanio fa emergere anche la contraddizione della politica: gli stessi partiti che quattordici mesi fa hanno avallato la nomina di un alto dirigente dello Stato alla guida di una importante agenzia nazionale con nonchalance ‘avallano’, oggi, la sua sostituzione ‘imposta’ dall’alto. E non perché il dirigente scelto più di un anno fa non sia stato bravo: il suo lavoro è stato lodato da tutti come ‘encomiabile’. Ma, semplicemente, perché imposta da una regia esterna che si arroga di voler decide le nomine ed imporle a tutti anche in casi di evidente incompatibilità. Come avviene per la Dal Verme. In questa nomina sono lampanti: sia di opportunità politica che tecnica. Innanzitutto c’è il ‘ruolo istituzionale’ di Paolo Gentiloni: tra le incompatibilità dei commissari europei spicca quella di non avere parenti o affini nei Paesi membri dell’Unione europea che gestiscono investimenti e risorse che hanno a che fare con fondi comunitari. E l’attività dell’Agenzia del Demanio riveste un ruolo fondamentale nella progettazione e realizzazione del Recovery Found. A questa si aggiunge una norma del Testo unico della dirigenza pubblica che statuisce che i dirigenti delle amministrazioni vigilanti non possono avere incarichi operativi negli enti vigilati. Insomma la Dal Verme, di indubbia professionalità, passando al Demanio, rivestirebbe il ruolo di vigilante e vigilata. Elementi, questi, che non possono essere inquadrati in un normale avvicendamento di cariche con l’avvento di un nuovo esecutivo. Tutt’altro. Questo cambio sembra seguire solo una miope logica spartitoria che nasconde un messaggio chiaro, una sorta di avvertimento. E cioè: le nomine future passano solo da una determinata cabina di regia e nonostante le pressioni politiche senza il semaforo verde della regia si muoverà ben poco. Questo sarebbe l’auspicio. Ma, gira voce nei corridoi dei palazzi del potere, che il presidente del consiglio Mario Draghi non sia assolutamente disposto a voler essere scavalcato nelle scelte. Viene indicato come molto irritato da un attivismo che non trova nessuna giustificazione politica o amministrativa. Ne avrebbe subite già tante ed avrebbe detto ‘ora basta’. La regia è avvisata.

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