Debito pubblico e mani estere

Il debito pubblico Italiano, che dagli ultimi dati disponibili sembra aver raggiunto ad ottobre 2014 la non invidiabile quota 2.211,8 miliardi, presenta  la caratteristica di essere, per una quota importante, in mani di soggetti esteri. Talune ricerche effettuate non più tardi dello scorso mese di agosto, stimano, tale quota in circa il 40% in mano a banche ed investitori esteri. Essa, tuttavia, è in diminuzione e, a sentire i rappresentanti degli intermediari stranieri in Italia, ‘Il sentimento degli operatori esteri è di preoccupazione per il mantenimento del loro impegno verso i singoli operatori economici ma anche di sconforto perché il sistema Italia non cambia’Negli scorsi anni, infatti, si sarebbe registrato un deflusso significativo di titoli in portafoglio di istituti esteri (nel solo 2011 sembra per un importo di 14 miliardi di euro), soprattutto rappresentato da disinvestimenti delle filiali. In particolare, la quota di Titoli di Stato detenuti da filiali di soggetti esteri è passata dal 17,2% nel 2010 al 10,4 nel 2011 per poi attestarsi all’8,5% al 31 marzo 2012. Al momento non si dispone di dati attendibili più aggiornati, ma la tendenza sembra consolidarsi. Se andiamo ad analizzare le statistiche sulla ricchezza posseduta dalle famiglie italiane, come i dati della Banca d’Italia confermano, il nostro  è un Paese di buoni risparmiatori ma con alcuni punti di caduta. La composizione delle attività finanziarie negli ultimi anni ha subito sensibili variazioni. Gli aumenti di 8 punti percentuali delle quote di attività finanziarie in obbligazioni private italiane (dal 2,2 al 10,2 per cento) e riserve tecniche di assicurazione (da quasi il 10 a quasi il 19 per cento) sono stati compensati dalla contrazione delle quote di attività finanziarie in depositi bancari ed in titoli pubblici italiani (rispettivamente dal 29 al 19 e dal 19 al 5 per cento). Peraltro, le attività finanziarie detenute all’estero dalle famiglie italiane sfioravano i 320 miliardi di euro a fine 2012, in aumento di circa il 5 per cento rispetto alla fine del 2011. Per inciso, tale ricchezza, è detenuta per il 47,5 per cento dalle famiglie appartenenti al decile di ricchezza netta più elevata, mentre molto contenuta è la quota di ricchezza finanziaria detenuta dalle famiglie giovani e dagli affittuari (nel 2010 pari rispettivamente al 4 e all’ 8 per cento). C’è dunque, quindi, ancora molta ricchezza in Italia, ma in molti hanno abbandonato i titoli pubblici emessi dallo stato italiano, e hanno preferito attività finanziarie estere  come i bond tedeschi (ritenuti più sicuri, ma con rendimento pressoché nullo) o, addirittura, investimenti immobiliari fuori patria (tipico il caso dell’acquisto di immobili nella capitale inglese). Il possesso da parte dei bond italiani in mani estere determina almeno due importanti effetti di cui la politica economica non può non tenere conto perché rende i bond esposti alle derive del circuito finanziario internazionale e mette il debito ostaggio della speculazione di origine straniera. Viceversa, riportare il debito pubblico nelle mani dei cittadini italiani, avrebbe come conseguenza immediata di rendere più stabile il debito, che compenserebbe lo svantaggio di una minore liquidità dei bond sui mercati internazionali.  Dunque, occorre offrire il debito in prevalenza agli italiani, perché abbiamo motivo di credere che, per mentalità, i privati e gli investitori istituzionali italiani tendono ad agire da cassettisti e che, pertanto, siano più disposti a conservare il debito fino a  scadenza. E’ necessaria una politica fiscale di favore che assicuri alle attività finanziarie detenute in titoli dello Stato italiano una sorta di esenzione fiscale, deve costituire il perno di una nuova politica del debito pubblico. L’offerta andrebbe, poi, concentrata tutta sul mercato italiano gestendone il classamento con politiche attive di offerta, e puntando all’allungamento della vita media del debito. L’effetto più immediato di una tale diversa gestione del debito pubblico sarebbe quello di potersi concentrarsi sul denominatore del rapporto Debito/Pil, adesso superiore  al 132%, liberando la politica economica dall’affanno continuo del rinnovo del debito.

 

 

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