Considerazioni di Roberto Staglianò su ‘Primo’ in scena al Teatro Argentina di Roma fino al 20 gennaio

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Roberto Staglianò, considerazioni su ‘Primo’, recital letterario tratto da ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi, dal 15 al 20 gennaio al Teatro Argentina, Roma. Con Jacob Olesen, regia di Giovanni Calò.

 

Jacob Olesen entra in scena sulle note di una fisarmonica, una melodia musicale che è un primo passaggio, un movimento di apertura che già evidenzia un messaggio per il pubblico in platea. Le musiche originali di Massimo Fedeli richiamano alla memoria una tradizione popolare che fa parte di un passato che è  e che sarà un patrimonio culturale dell’umanità. Contemporaneamente, le luci di Luca Febbraro disegnano spazi mediante giochi di dissolvenza, sul palcoscenico del Teatro Argentina di Roma. È la sera della prima, quella del 15 gennaio 2018, a pochi giorni di distanza da una data storica: 27 gennaio 1945: la liberazione da un incubo, una delle pagine più atroci del ‘900.

Primo è un recital letterario tratto dall’opera letteraria ‘Se questo è un uomo’ di Primo Levi con l’adattamento di Giovanni Calò e Jacob Olesen.  Il racconto inizia il 13 dicembre 1943, quando Primo Levi è arrestato dalla milizia fascista. In seguito verrà deportato nel campo di Monowitz, lager satellite polacco del complesso di Auschwitz e sede dell’impianto Buna-Werke, dove sopravvive poco più di un anno, fino alla liberazione. Nel 1947 Levi pubblica la prima edizione di ‘Se questo è un uomo’ che è tuttora ka testimonianza e il manifesto di quell’Olocausto.

Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi.

Jacob Olesen recita la prefazione del libro e, durante lo spettacolo, ci saranno diversi momenti in cui il protagonista alterna momenti di narrazione del testo teatrale con la lettura di brani tratti da ‘Se questo è un uomo’. Il libro è uno dei pochi oggetti di scena, sempre presenti, insieme con una scodella, una panca e uno sgabello. Completano la scenografia alcuni pannelli-quinte dai colori cupi e scuri, ispirate all’opera di Eva Fisher e con figure astratte che emergono di volta in volta, grazie al sapiente uso dei riflettori.

L’interpretazione di Olesen ha uno stile descrittivo, distaccato, quasi chirurgico nella sua esposizione. Quelle inflessioni, gli accenti e le cadenze personali caratterizzano la voce di un attore che parla sei lingue (svedese, danese,inglese, tedesco, italiano o francese), rendola tipica e originale. Ogni lingua usa diversi muscoli nella bocca, nella gola, nel petto e in tutto il corpo. Ma anche le intenzioni che trasmettono le battute sono diverse a seconda che in scena vengano recitate in tedesco o in italiano.

Emerge chiaramente la scelta registica di compiere la trasposizione dello stile letterario di Levi nella drammaturgia di un monologo che dura settantacinque minuti. Non concedendo mai spazi di retorica poiché non sono presenti nel testo, la regia e l’interpretazione rimangono in una limpida e pulita sospensione, la tensione è controllata perché l’obiettivo è lo stesso di Primo, il deportato. Il pubblico, l’attore non devono crollare così come non deve crollare il protagonista del dramma vissuto nel campo di stermino e di concentramento. L’obiettivo non è lasciarsi schiacciare dalla crudeltà e dalla carneficina dei forni crematori e delle camere a gas, dalle torture del freddo, dell’acqua gelida e della neve, dalle umiliazioni dei triangoli di diversi colori sulla divisa a righe, dai numeri marchiati sulla pelle, dalla rasatura dei capelli e dei peli del corpo, finalizzata a rendere quei prigionieri ‘nudi come vermi’.

Jacob Olesen è un attore svedese, che vive in Italia ed è insegnante del metodo Feldenkrais. Usa la voce e il suo corpo; si muove continuamente, marcia, cade, si rialza, occupa tutti gli spazi con la precisione di un artista che si è formato nella scuola di Jacques Lecoq.  L’obiettivo è entrare nello spirito e nella mente di Primo perché bisogna sopravvivere per dire, non per raccontare. Recitare significa dire due volte. E’ una dichiarazione spontanea ma lucida, come in una testimonianza nell’aula di un Tribunale. Serve a far conoscere quell’inferno a chi con l’ha vissuto. Perché possa avvenire questo ‘contagio emozionale’ è necessario mantenere una sorta di controllo, calcolato e geometrico, finalizzato alla sopravvivenza. Un adattamento alla vita del lager fatto di orari, tabelle, routine, elenchi, attese inutili e sadiche, tutto veniva regolato meticolosamente, senza lo spazio per un imprevisto. Bellissimo il momento dell’incontro con un prigioniero italiano che racconta il canto di Ulisse della Divina Commedia ad un compagno mentre trasportano il  pentolone della zuppa.

La regia di Calò è pulita e precisa nel dare risalto alla lingua colta e sapiente di Primo Levi, così come l’interpretazione di Olesen. Tutto questo era chiaro fin dall’inizio, era conservato con cura nelle parole della prefazione del libro: il paradosso della ‘fortuna’ di un deportato arrestato in un anno propizio, il 1944 e che lo comprese anche leggendo quella beffarda scritta sui cancelli del campo di concentramento: ‘Arbeit macht frei’ , Il lavoro rende liberi.

Roberto Staglianò.

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