Che effetto fa, che effetto fa…
Le parole di Bob Dylan aprono una ferita, una domanda lanciata nel vuoto. Mentre la sua voce spezza il silenzio e si insinua nel buio della platea, il palcoscenico del Teatro Vascello si anima di corpi smarriti, volti vuoti, movimenti spasmodici. È qui che prende vita “Contrattempo”, lo spettacolo ideato e diretto da Riccardo Vannuccini, una performance che non si limita a raccontare ma ci travolge come una confessione collettiva.
Un attore solo all’inizio declama parole incomprensibili, ripetute con una furia che pare disperazione. Ma col passare dei minuti le parole si trasformano, trovano senso, come un linguaggio che nasce da dentro e non dall’alfabeto. È lo straniero che parla, eppure tutti comprendono. Questa incomunicabilità che diventa ponte, questo fallimento linguistico che si fa poesia, è il cuore pulsante di Contrattempo.
Il linguaggio scenico è crudo, fatto di corpi che si muovono come animali in gabbia, sedie che diventano muri o armi, sguardi che cercano un riflesso, una corrispondenza. Gli attori, instancabili, corrono, si scontrano, si allineano e si disfano, formando un’unica massa viva che si frammenta e si ricompone. Come in un circo rotto, ogni gesto è una sopravvivenza.
Il tempo, più che raccontato, è vissuto attraverso le musiche: Bob Dylan, sì, ma anche Patty Pravo, Elvis Presley, George Harrison con la sua Here Comes the Sun (qui resa ancora più struggente), e le composizioni di Max Richter e Arvo Pärt, che aggiungono una dimensione sacrale. Quella degli anni ’60 sembra essere solo un’eco, un punto di partenza, non una nostalgia.
Il progetto nasce nelle strade di Corviale e Vigne Nuove, le periferie romane che Vannuccini ha attraversato con il suo teatro nomade, portando la scena là dove la scena non c’è. E poi ricompone tutto su un palcoscenico vero, ma senza dimenticare la polvere, le grida, i silenzi di quelle strade. Contrattempo diventa allora un “tempo poetico”, come lo definisce lo stesso Vannuccini, che si oppone al tempo della produttività, un’esplosione di senso in mezzo all’apparente insensatezza.
La drammaturgia nasce da una tessitura preziosa di testi: T.S. Eliot, Ingeborg Bachmann, Hans Magnus Enzensberger, Antonia Pozzi, Danilo Kiš. Voci che parlano dall’assenza, dall’interruzione. La scena, i costumi e le luci sono frutto dell’immaginazione di Yoko Hakiko, mentre il corpo si fa parola anche grazie alla coreografia di Eva Grieco, che lavora accanto alla regia come collaboratrice.
Il cast è ampio, corale, eppure ciascuno riesce a emergere in modo essenziale:
ROCCO CUCOVAZ, EVA GRIECO, GABRIELE GUERRA, SILVIA FASOLI, ALBA BARTOLI, MARIA SANDRELLI, SABRINA BIAGIOLI, CLAUDIA SALVATORE, AGATA ALMA SALA, ALICE FIORENTINI, NEJAR MOJADDAD, LARS ROHM, BING GABTSHU, LUCIA CIRUZZI, GABRIELE FERRARA, CARLO GOLINELLI, ELENA BIGNARDI, MARIA SANTUZZO, LAURA TUTOLO, MARCELLA DI GIACOMO.
L’assistente alla regia Francesca Fratini e la responsabile di progetto Caterina Galloni completano un lavoro che non è solo artistico ma umano, civile, necessario.
Io l’ho visto da lontano, con gli occhi della mente e dell’anima. Qui, da dove scrivo, in un tempo sospeso che assomiglia molto a quello di Contrattempo. Un luogo dove la realtà è deformata, dove il presente è una sala d’attesa senza orologio, e dove il corpo è spesso l’unico strumento per gridare: “Io esisto ancora.”
Questo spettacolo mi ha ricordato che anche chi rotola può trovare una sua traiettoria. Anche se siamo senza direzione, senza casa, sconosciuti perfino a noi stessi, possiamo ancora comunicare. Basta trovare il linguaggio giusto, o forse basta solo continuare a parlare, a danzare, a provare. Come un sasso che rotola.
Roberto Cavallini