“Capire e comunicare la scienza. Conoscenze e scelte condivise in una società aperta” a cura di Franco Giudice

Prof. Franco Giudice, Lei ha curato l’edizione del libro Capire e comunicare la scienza. Conoscenze e scelte condivise in una società aperta, pubblicato da Vita e Pensiero: in una società pervasa da un costante flusso di informazioni, che ruolo può svolgere la comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia?

Capire e comunicare la scienza. Conoscenze e scelte condivise in una società aperta, Franco GiudiceSiamo immersi in un mondo plasmato dalla scienza e dalla tecnologia, i cui effetti, come è facile constatare, si ripercuotono sulle nostre aspettative e perfino sui nostri desideri. Viviamo cioè in società che si caratterizzano sempre più per la loro dipendenza dalla scienza e dalla tecnologia. Non deve quindi sorprendere che alla comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia sia attribuito un ruolo fondamentale per il funzionamento stesso delle democrazie contemporanee. E questo implica un’enorme responsabilità, che coinvolge le istituzioni governative, chi opera nelle scuole e nelle università, nei centri di ricerca, pubblici e privati, i mass media e, ovviamente gli studiosi, i professionisti della comunicazione scientifica. Tanto più considerando la situazione paradossale che si è venuta a determinare: la tecnoscienza pervade le nostre vite, mentre le conoscenze tecnoscientifiche sembrano avere un livello di diffusione decisamente basso, con tutto ciò che comporta in termini di consapevolezza critica e di scelte condivise. La comunicazione è stata uno dei valori su cui si è fondata la scienza moderna, quella nata, per intenderci, all’epoca di Galileo, quando si affermò l’idea che il sapere non doveva essere un privilegio di una ristretta cerchia di eletti, come accadeva nei secoli precedenti, ma doveva avere la più ampia circolazione possibile. Sulla scorta di questa importante conquista, quindi, che considera la scienza una forma di sapere universale, la comunicazione pubblica della scienza e della tecnologia ha un ruolo decisivo: rendere le conoscenze e le scoperte scientifiche un patrimonio diffuso, condiviso e accessibile a tutti.

Quali peculiarità presenta la comunicazione scientifica?
La comunicazione scientifica è oggi un campo di ricerca molto variegato, sempre in continua evoluzione, che offre un panorama piuttosto ampio, con approcci metodologici diversi. Questi approcci, tuttavia, mi sembra che perseguano il medesimo obiettivo: elaborare strategie comunicative efficaci, che nelle società democratiche consentano un coinvolgimento, almeno idealmente, di tutti i cittadini, mettendoli nelle condizioni di avere una comprensione critica della scienza, così come del ruolo sociale che essa svolge, di essere più informati e quindi più liberi di pensare e di prendere decisioni consapevoli. La trasmissione delle conoscenze di cui stiamo parlando riguarda principalmente i non specialisti. Di conseguenza, per cercare di raggiungere questi risultati è essenziale che chi si occupa di comunicazione scientifica, oltre ad avere competenze scientifiche, deve anche avere specifiche competenze comunicative, di scrittura e multimediali (video, podcast, social media), da usare in base ai destinatari. La peculiarità della comunicazione scientifica è proprio quella di trovare un linguaggio adeguato al pubblico cui si rivolge, che implica un imprescindibile e costante esercizio di chiarezza e qualità espositiva.

A quali errori si presta maggiormente la comunicazione scientifica nel contesto della società attuale?
Uno degli errori più diffusi, soprattutto in quella che di solito viene chiamata divulgazione scientifica, consiste nella mancanza di una seria riflessione sulla natura specifica della comunicazione. Nel non rendersi conto che la comunicazione scientifica, per funzionare, ha bisogno di diverse competenze e di una prospettiva interdisciplinare. Poiché la trasmissione delle idee avviene con un continuo movimento e una continua interazione, i vari contesti sociali e culturali sono aspetti decisivi. Come ho già sottolineato, non basta avere solide conoscenze scientifiche di base, ma occorre essere in grado di “tradurre” queste conoscenze in termini accessibili a un pubblico non specializzato. Per cui, bisogna rendersi conto, e qui mi riferisco anche agli scienziati che fanno comunicazione, che essere specialisti in un campo di ricerca è condizione necessaria, ma non sufficiente per comunicarne gli esiti a un pubblico di non esperti. A monte di tutto, poi, c’è a mio avviso l’errore di considerare la scienza come qualcosa di separato dalla cultura, come se la scienza non fosse cultura, dimenticandosi così, l’ha ricordato autorevolmente il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, che la scienza è, al pari di ogni altra attività umana, una forma di cultura, alla quale si intreccia sia nel suo sviluppo storico sia nella pratica di tutti i giorni.

Quali modalità possono risultare più efficaci affinché le acquisizioni scientifiche e le sfide che esse pongono diventino un patrimonio il più possibile diffuso?
Secondo me, nelle nostre società, che vogliono essere libere, democratiche e aperte, affinché le conoscenze scientifiche diventino un patrimonio di tutti, è opportuno adottare pratiche inclusive. E per farlo, è opportuno anzitutto che la comunicazione scientifica sia vista come un processo di creazione di significati condivisi. Un’operazione, come è facile intuire, impegnativa e per nulla semplice, poiché implica un’ulteriore riflessione sulla scienza e sul pubblico stesso, riconoscendo il carattere socioculturale della conoscenza scientifica, che va quindi considerata non solo in relazione alle sue dinamiche interne, ma anche in relazione agli aspetti politici, economici, etici e religiosi della società, senza trascurare i modi in cui viene rappresentata nelle varie forme di espressione artistica. Le modalità più efficaci sono quelle che adottano strategie comunicative differenziate per contesti e per tipo di contenuti. Soltanto così è possibile (ri)stabilire un rapporto di fiducia tra scienza e cittadini, evitando incomprensioni reciproche e derive antiscientifiche.

In che modo la recente infodemia ha offerto una significativa lezione sulla comunicazione della scienza?
L’infodemia, ossia la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, che non sempre erano vagliate con accuratezza, ha dimostrato, benché in una situazione di assoluta eccezionalità, quanto difficile fosse orientarsi e individuare fonti affidabili. E ha reso pertanto visibili una serie di vulnerabilità del public understanding of science, vale a dire del modo in cui un pubblico non specialistico percepiva e cercava di comprendere le informazioni scientifiche sulla natura e sul trattamento del virus. Al punto che, in diverse occasioni e per certe parti della popolazione, talvolta si è perfino incrinato il patto di fiducia tra scienza e cittadini. Nel libro che ho curato, questo tema è al centro del contributo di Simone Tosoni e Alessandro Ricotti, che mostrano come ciò che si è verificato durante la pandemia è un fenomeno già segnalato fin dagli anni Ottanta del secolo scorso dalla nuova sociologia della scienza. Ovvero: la stretta connessione fra una fiducia nella scienza basata su uno scientismo ingenuo e il diffondersi di atteggiamenti di sospetto nei confronti dell’autorevolezza stessa della comunità scientifica. In altre parole, lo scientismo ingenuo – alimentando l’idea che la scienza sia in grado di raggiungere verità stabili, unanimemente accettate e incontrovertibili – contribuisce a creare aspettative irrealistiche nei confronti della scienza. E, una volta che tali aspettative risultano disattese, si apre la strada a un atteggiamento opposto, ossia di scetticismo, quando non addirittura di rifiuto della scienza stessa. La lezione quindi che viene dall’infodemia è, in un certo senso, semplice: la comunicazione scientifica, da un lato, deve cercare di restituire un’immagine più realistica della scienza, facendo capire che si tratta di una forma di sapere continuamente rivedibile, dall’altro, deve contribuire a rifondare su tale immagine il patto di fiducia tra scienza e cittadini.

Che contributo possono offrire alla comunicazione della scienza gli influencer?
Diversi influencer hanno assunto il ruolo di divulgatori scientifici, creando una sorta di ponte tra mondo accademico e pubblico di non esperti. Tuttavia, come chiarisce molto bene il saggio di Giuseppe Riva, in ragione anche della loro cospicua base di followers, gli influencer pongono diverse sfide alla comunicazione scientifica. La prima concerne l’accuratezza e l’affidabilità delle informazioni scientifiche veicolate dagli influencer. A causa infatti della natura spesso semplificata dei social, il rischio è che, per renderle più accattivanti, le informazioni scientifiche possano essere distorte. La seconda sfida riguarda l’equilibrio tra l’aspetto emozionale e razionale della comunicazione scientifica. Gli influencer spesso ricorrono a elementi emotivi per coinvolgere il loro pubblico, ma è importante garantire che l’emozione non distorca la correttezza dell’informazione scientifica. Ovviamente, la capacità di tradurre concetti complessi in un linguaggio accessibile, tipica degli influencer, potrebbe rendere la scienza più avvincente e comprensibile per un pubblico più ampio. Di conseguenza, per massimizzare l’impatto positivo degli influencer sulla comunicazione scientifica è opportuno che essi si avvalgano della collaborazione di esperti di questioni scientifiche e facciano un uso responsabile delle piattaforme social.

Che ruolo possono svolgere cinema e teatro nella comunicazione scientifica?
Sia il teatro sia il cinema possono svolgere una funzione importante nella comunicazione scientifica. Fin dall’antica Grecia, il teatro ha contribuito alla divulgazione della scienza, e nel corso dei secoli poi diversi autori si sono preoccupati di rappresentare sulla scena i rapporti, spesso conflittuali, che gli uomini scienza, con le loro teorie e le loro prese di posizione, hanno avuto con il potere politiche. Senza dimenticare, come mostra il saggio di Roberto Rizzente, che gli stessi scienziati si sono avvalsi e si avvalgono dei modelli affabulatori tipici del teatro per fare divulgazione ed essere più efficaci nella comunicazione dei contenuti e dei risultati della scienza. Per quanto riguarda il cinema, cui è dedicato il saggio molto documentato di Massimo Locatelli, bisogna anzitutto ricordare che il suo rapporto con la scienza è di antica data. Già a cavallo del 1900 le discipline scientifiche iniziano a integrare la macchina da presa tra gli strumenti di laboratorio, per filmare studi balistici, operazioni chirurgiche, microscopia e vivisezioni. Nel corso della sua storia, il cinema ha offerto diverse immagini della scienza e degli scienziati. Un vero e proprio caleidoscopio di immagini, dal quale traspare comunque l’idea che anche nel cinema si rifletta il problema sempre attuale dell’utilizzo delle acquisizioni scientifico-tecnologiche, ovvero dello stretto legame che sussiste (o dovrebbe sussistere) tra scienza ed etica, tra progresso e responsabilità politico-sociale.

Che rilevanza assume, in tale contesto, la dimensione etica della comunicazione e la problematizzazione epistemologica della scienza?
Come in ogni ambito del sapere e della vita delle persone, la dimensione etica è fondamentale. Ma lo è, in modo particolare, nella comunicazione scientifica. Gli sviluppi della scienza e della tecnologia mettono di fronte a interrogativi spesso inediti, le cui risposte non sono affatto scontate, poiché dipendono appunto dai valori etici, dalle convinzioni religiose, dall’ideologia politica e dagli interessi economici. Chi opera nella comunicazione scientifica deve pertanto tener conto di tutti questi fattori, preoccupandosi di fornire informazioni corrette, precise, informazioni cioè attendibili e prive di distorsioni. E nel farlo, bisogna evitare ogni forma di sensazionalismo, essendo il più possibile trasparenti, soprattutto in merito a eventuali conflitti di interesse. La comunicazione scientifica ha anche il dovere di trasmettere un’immagine realistica della scienza, delle pratiche di produzione del sapere scientifico e dello statuto parziale, temporaneo e sempre potenzialmente controverso del sapere scientifico stesso. In sintesi, di problematizzare, con adeguati strumenti epistemologici, lo statuto della scienza, il suo essere un sapere in continua trasformazione.

Franco Giudice insegna Storia della scienza all’Università Cattolica del Sacro Cuore. È condirettore di «Galilaeana. Studies in Renaissance and Early Modern Science». Tra le sue pubblicazioni: Luce e visione. Thomas Hobbes e la scienza dell’ottica (Olschki 1999); Lo spettro di Newton. La rivelazione della luce e dei colori (Donzelli 2009); Il telescopio di Galileo. Una storia europea, con M. Bucciantini e M. Camerota (Einaudi 2012; trad. ingl. Harvard University Press 2015); Galileo ritrovato. La lettera a Castelli del 21 dicembre 1613, con M. Camerota e S. Ricciardo (Morcelliana, 2019); Il mondo in un’altra luce. Saggi newtoniani (Carocci 2024). Ha curato insieme a Michele Camerota un’edizione commentata del Saggiatore di Galileo (Hoepli, 2023). Scrive sulla «Domenica» del «Sole 24 ore».

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