‘Bartleby’ al Teatro Brancaccino di Roma

Debutta in prima nazionale ‘Bartleby’,  secondo capitolo della trilogia ‘Racconti americani’, ideato dalla compagnia Muta Imago che si ispira all’omonimo racconto di Herman Melville, il 25, 26 e 27  novembre prossimi al  Teatro Brancaccino di Roma.  ‘Bartleby’  è ideato dalla compagnia Muta Imago, co-prodotto con il Festival Notafee (Estonia), con la regia di Claudia Sorace, la drammaturgia sonora e voce narrante di Riccardo Fazi, il video di Maria Elena Fusacchia e la musica originale di V. L. Wildpanner.

‘Bartleby’ è il nuovo racconto per suoni e immagini ispirato dall’omonimo racconto di Herman Melville. Un anziano avvocato racconta in prima persona la vicenda del suo incontro con l’uomo più misterioso che avesse mai incontrato: Bartleby, uno scrivano che ha assunto alle sue dipendenze e che, piano piano, inizia a stravolgergli il mondo. Una piccola, semplice storia ambientata in un ufficio di Wall Street a metà del Diciannovesimo secolo, che Muta Imago ha deciso di raccontare di nuovo, per investigare il profondo significato che si nasconde dietro al semplice gesto del suo protagonista.

‘Racconti americani’ è un progetto che unisce tre racconti per suoni e immagini ispirati ad altrettante opere letterarie. È il tentativo di restituire a una dimensione orale e visiva immersiva lo spirito di tre grandi storie di autori nordamericani, scritte a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Le tre storie sono legate dal tema del conflitto. ‘Fare un fuoco’ di Jack London (2015) nel presentare la vicenda di un uomo che cerca di sopravvivere al freddo dell’Alaska, parla del conflitto tra l’uomo e la natura. ‘Bartleby’ di Herman Melville (2016), che ha per protagonista un giovane scrivano che da un certo momento in poi rifiuta di fare alcunché, ci racconta del conflitto tra l’uomo e la società. ‘L’ospite ambizioso di Nathaniel Hawthorne (2017), attraverso la tragica storia dell’incontro tra una famiglia e un ospite inatteso, affronta la questione del conflitto tra l’uomo e se stesso.

Il senso di questi racconti  è recuperare, semplicemente, con un linguaggio contemporaneo ciò che costituisce la base del teatro da centinaia di anni: una voce, un racconto e un gruppo di persone intorno ad ascoltarla. In questo senso il lavoro sulle immagini non è di natura diegetica o narrativa: si tratta di un montaggio di sequenze quasi di sogno che accompagna lo spettatore nel suo lavoro d’immaginazione a partire dalle parole del testo.

Ogni racconto prevede la realizzazione di un’installazione specifica che costituisce la superficie di proiezione. In ‘Fare un fuoco’ si trattava di una grande lente di pvc trasparente piena d’aria; In ‘Bartleby’ è un fondale che richiama nella forma il landscape caratteristico di New York; ma allo stesso tempo, nelle dimensioni e nel materiale di cui è costruito, ricorda il famigerato “screen”, il separé di legno che divide lo spazio di Bartleby da quello del suo capo, con cui condivide la stanza. Il video è stato realizzato da Maria Elena Fusacchia nei luoghi dove il racconto è ambientato, quindi il cuore di Manhattan. Materiali realistici che dialogheranno con elementi realizzati invece in studio.

La musica, concepita ad hoc da V. L. Wildpanner, si compone gradualmente per stratificazione di elementi; come nella forma del bolero, è un accumulo che monta sempre di più fino alla risoluzione finale. Insieme alla musica c’è l’universo dei suoni, un tappeto sonoro costruito da Riccardo Fazi a partire da tutti i suoni legati al lavoro dello scrivano: lo stridio del pennino sul foglio, il ritmo dei timbri, lo scricchiolare delle sedie etc… I due elementi dialogano durante il racconto e insieme costruiscono un tappeto sonoro costante, interrotto soltanto dalle improvvise rotture nella melodia, metafora dell’arrivo e delle apparizioni di Bartleby. Il tutto è registrato, sia la musica sia la voce.

Noi crediamo fortemente nella presenza dell’attore in scena: il teatro ruota intorno a esso, alla performance dal vivo ovviamente. Ma in questo caso, proprio perché si tratta di racconti e di costruzioni perfettamente realizzate, sincronizzate, quasi filmiche nella loro restituzione, abbiamo preferito far scomparire la figura del performer in carne e ossa, e far risuonare soltanto la sua voce, mai così presente come in questo caso. Si tratta di creare uno spazio onirico dove gli elementi si presentano nella loro delicatezza e quasi irrealtà, dove si tratta di creare un vuoto che lo spettatore deve riempire con la sua immaginazione. La presenza del performer, o del musicista in scena in questi lavori, sarebbe stata di troppo.

Portare un lavoro video a teatro significa ri-aprire la fruizione cinematografica, ormai individualizzata e asettica, quasi televisiva, donarle di nuovo una modalità di fruizione condivisa ed emotiva, quale quella del teatro è.

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