Al Teatro Brancaccino di Roma,ultima serata di ‘Un alt(r)o Everest’ di e con Mattia Fabris e Jacopo Bicocchi

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, la recensione di Roberto Staglianò sullo spettacolo ‘L’alt(r)o Everest’, in scena al Teatro Brancaccino fino a stasera.

 

Seduti all’angolo del palcoscenico, su due sedie, ci sono Mattia Fabris e Jacopo Bicocchi, gli autori e i due interpreti protagonisti de L’alt(r)o Everest. Sembra quasi che dicano: ‘Oh, ce l’avete fatta, siete venuti…’. Forse ripassano qualche battuta, gli ultimi dettagli tecnici da tenere a mente, mentre guardano il pubblico che prende posto in sala al Teatro Brancaccino per la prima. Verrebbe quasi spontaneo salutarli, come tra amici  L’alt(r)o Everest è l’evoluzione di S(l)egati, lo spettacolo di Mattia Fabris e Jacopo Bicocchi che è anche il nome della loro compagnia a due. Un tour fatto con più di cento repliche, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Fanno tutto insieme loro: dalla drammaturgia alla regia, includendo naturalmente il lavoro di recitazione in scena. Dietro questo progetto c’è il libro di Kevin Vaughan e Jim Davidson ‘Il cerchio bianco’.

Jim /Jacopo, Mike/Mattia sono due amici, una cordata. Stesse iniziali dei nomi. Due vite a confronto, la stessa passione per le pareti di roccia. E una montagna eterna che decidono di scalare nel 1992, il Monte Rainier nello stato di Washington, Stati Uniti. A Seattle la chiamano ‘The Mountain’.

La loro scalata inizia con l’essere ragionata e discussa prima in una serata tra amici a bere birra, mangiando carne e patatine. Jim chiede a Mike perché ci tiene così tanto a scalare l’Everest. La sua risposta è pura poesia: ‘Perché sopra l’Everest non c’è niente. È un altro mondo. È il mondo dei sogni’.

La scalata di quella vetta prende forma durante un percorso fatto in macchina insieme, per loro, rappresenterà un viaggio nella fragilità e al tempo stesso nella forza dell’anima. La ricognizione e la riscoperta delle loro individualità e del rapporto di solidarietà e di affetto tra Jim e Mike. Sullo sfondo di un’America che è lo spazio geografico della storia, i due amici affronteranno diverse tappe esistenziali. Tra tutte, quella più dura e difficile è la perdita, il lutto, l’abbandono.

È una storia universale perché parla anche di quel dialogo tra chi resta e chi non c’è più e che la morte non potrà mai spezzare, né cancellare del tutto. Jim confessa non uscirà più da quel maledetto crepaccio che si allargherà sempre di più fino a contenere dentro il passato e il presente. Jim sa che presto potrebbe essere sepolto sotto la neve e allora tira fuori un braccio e con uno sforzo incredibile di concentrazione scava sopra la sua testa.  Scopre che Mike è accanto a lui, seguiranno momenti di panico, terrore e disperazione. Ogni movimento, ogni tentativo per uscire vivo da lì, richiederà una precisa ponderazione, anche se si scontra con quel senso dell’inevitabile, tipico della logica e delle probabilità statistiche di sopravvivenza. Sarà la presenza di Mike, in un dialogo continuo e costante, a salvaguardare e proteggere l’amico. Jim rimane in sospensione con Mike, in una sorta di dialogo/sogno visionario. Si gioca tutta la sua vita misurandosi con se stesso, come il funambolo di Genet.

La Morte,  la Morte di cui ti parlo,  non è quella che seguirà la tua caduta, ma quella che precede la tua apparizione sul filo. E’ prima di scalarlo che muori. Colui che danzerà sarà morto, deciso a tutte le bellezze, capace di tutte.

La forza di questo spettacolo è la perfetta combinazione tra la drammaturgia, la bravura e la sensibilità degli interpreti. Mattia Fabris e Jacopo Bicocchi regalano tanta autenticità con una recitazione generosa e profonda. C’è ascolto, c’è tanta coordinazione, c’è il movimento e l’azione anche quando le scene sono statiche, c’è il qui e ora del teatro. Le scene sono di Maria Spazzi e se il parametro è la quantità di oggetti, allora la scena è spoglia. Ci sono due sedie che scomponendosi ricreando nuove mappe, geometrie di luoghi come pub, interni di automobile, strumenti per scalare le montagne. E così la scena non è spoglia se lo sguardo è attento e sensibile. Lo spazio è riempito dagli attori e dalle luci di Alessandro Verazzi. Sembra una cosa elementare, ma non lo è perché ci vuole talento e coraggio per far leva sull’immaginazione dello spettatore, portandolo giù nel crepaccio o su in alto sulla vetta. Mattia Fabris e Jacopo Bicocchi con relativamente poco riescono ad evocare immagini, contesti, situazioni, emozioni. È quello di cui avrebbe maggiormente bisogno il teatro. Come dovrebbe essere nella condivisione di emozioni e sentimenti.

Roberto Staglianò

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