All’ora di pranzo la buvette del Senato è deserta. La manovra oggi doveva entrare nel vivo, ore e ore di voti sugli emendamenti, quelli decisivi. E invece di buon mattina la comunicazione: niente da fare, se ne parla domani.
Si aspettano notizie da Bruxelles. Una fonte del ministero dell’Economia spiega: ‘Finché non ci arriva il via libera alla nostra proposta ed eventuali osservazioni tecniche non sappiamo materialmente come scrivere gli emendamenti’. Devono arrivare i testi del Governo, entrare nella bagarre della Commissione, che deve licenziare il testo da mandare in Aula pronto per il maxi emendamento che lo riscriverà e su cui apporre la fiducia. Si sperava di chiudere al massimo mercoledì, serviranno almeno un paio di giorni in più, con conseguente terrore dei deputati di dover tornare tra natale e capodanno a Roma per il terzo, definitivo, ok da parte della Camera.
È la quiete prima della tempesta dopo che domenica Giuseppe Conte è arrivato ad avvertire a brutto muso i vicepremier, riottosi a sacrificare gli ultimi denari sull’altare di Bruxelles. Le fonti qui divergono, la cortina fumogena diventa fitta, ma tutti sono concordi su un punto: il premier ha spiegato a chiare lettere che infilarsi scientemente nella strada verso la procedura d’infrazione avrebbe significato andare verso il baratro di una crisi al buio. E ha tenuto il punto fino all’ultimo, assicurandosi di infilarsi nel vertice serale solo dopo aver incassato il sì all’orizzonte verso cui tendere, dovendo solo capire il come. “L’aver avvisato i giornali ventiquattr’ore prima – spiega una fonte di governo – rientra in questa strategia di forzare la mano su quella linea”.
Una forzatura che ha colpito nel segno, e ha portato in cassa altri tre miliardi di coperture, su per giù quelli chiesti dalla Commissione. E che ha svuotato Palazzo Madama.