Dopo aver cancellato l’articolo 18, introdotto i contratti a tutele crescenti, smantellato il diritto del lavoro con il Jobs Act e regalato 18 miliardi di sconti contributivi agli imprenditori, la politica occupazionale del governo Renzi-Gentiloni-Poletti ha prodotto una riduzione del 5,5 per cento di contratti a tempo indeterminato, l’aumento del 23 per cento dei contratti a tempo determinato e del 116,8 per cento di quello a chiamata.

I dati dell’Inps non lasciano spazi all’ottimismo. Chi pensava che con una maggiore libertà di licenziamento, con contratti a tempo indeterminato annacquati  con la cancellazione dell’articolo 18, si producesse il miracolo di una favolosa impennata dei tassi di occupazione,  che nel frattempo restano tra i più bassi d’Europa, è stato smentito. Al contrario chi riteneva che non è con una legge che si crea lavoro ma con gli investimenti produttivi e leggeva i dati del primo anno di vigenza delle riforme renziane attraverso la lente di ingrandimento della decontribuzione, ha ricevuto solo l’inevitabile conferma che gli imprenditori italiani non sono interessati ai contratti a tutele crescenti preferendo quelli a garanzie inesistenti; non si accontentano dell’indeterminatezza temperata ritenendo più opportuna la precarietà garantita. Se poi arriva qualche beneficio economico, a quel punto si riapre il rubinetto.

 Forse sarebbe opportuno cambiare registro e puntare a utilizzare quei quattrini per aiutare veramente l’economia, cioè destinandoli a impieghi produttivi. Renzi  continua a ribadire il suo sostegno al premier in carica Gentiloni e a rassicurare i suoi che il governo arriverà a fine legislatura.